PIL e priorità: alle armi il 2%, alla scuola il 4%

pilLa spesa per l’istruzione, in Italia, è tra le più basse dell’Unione Europea. Pari al 4% del Prodotto Interno Lordo (contro il 4.6% della media UE) e all’8.2% della spesa pubblica totale (9.9% in UE), l’investimento è diminuito del 7% tra il 2010 e il 2018 e, per le scuole superiori, si è ridotto fino a quasi il 20% negli ultimi dieci anni. Stesso discorso per l’università, dove la spesa è la più bassa dell’Unione Europea.

Sono questi i numeri con cui dobbiamo confrontarci nei giorni in cui il governo italiano sta valutando l’incremento delle spese militari del Paese fino al 2% del PIL. Il piano, parzialmente frenato a Palazzo Madama il 31 marzo, è stato rimandato al 2028, con un aumento progressivo che permetterà all’Italia di mantenere gli impegni presi con gli alleati – come prontamente sottolineato dal Ministro della Difesa Lorenzo Guerini – mentre la scuola e, più in generale, l’istruzione vengono sacrificate sull’altare di un futuro che non interessa a nessuno. Numeri che chiariscono le priorità di chi ci governa e smentiscono – ma non ne avevamo dubbi – la reale volontà di combattere l’abbandono scolastico e il profondo gap tra Nord e Sud.

A sottolinearlo, tra i pochi, è stato Nicola Fratoianni, il Segretario di Sinistra Italiana, che ha ricordato che ci sono anche altri obiettivi di spesa che il nostro Paese ha fissato in sedi internazionali – dalla transizione ecologica alla scuola e alla ricerca – dove siamo enormemente al di sotto delle promesse fatte, ma di cui sembriamo preoccuparci davvero poco. Allo stesso modo, Papa Francesco ha detto di vergognarsi per l’ipotesi paventata dal Parlamento, mentre le sigle sindacali, piuttosto unanimi, hanno dichiarato di trovare «assurdo che in un Paese, agli ultimi posti per la spesa in istruzione in area OCSE, si investano 13 miliardi nell’acquisto di armi e non si trovino le risorse per un personale fondamentale per il funzionamento delle scuole e per la serena conclusione di un anno scolastico segnato ancora dall’emergenza sanitaria».

Un segnale allarmante che non solo rischia di non garantire quella sicurezza dietro cui tentano di nascondere questa scellerata iniziativa, ma addirittura finisce per ripercuotersi su tutti i settori, in particolare i più fragili quale quello di nostra pertinenza.

Dei problemi strutturali della scuola abbiamo spesso parlato in questa sede. Ciò su cui tuttavia ci interessa riflettere oggi è un altro dato, non meno grave e non meno significativo: parliamo del risultato di un’analisi che parte dal dopoguerra e che, di anno in anno, si è rinsaldato fino alla situazione odierna che vede le regioni con le percentuali di dispersione scolastica più alte equivalere a quelle con più arruolati nell’esercito. E, di certo, non è una coincidenza.

Basta recarsi sul sito del Ministero della Difesa per verificare quanto affermato: la provenienza dei soldati italiani è collocabile per il 50.8% al Sud, per il 20.7% nelle Isole, per il 16.5% al Centro e, manco a dirlo, solo per il 9.4% al Nord. Nelle aree del Paese in cui si investe di meno, dunque, i giovani tendono a considerare quella militare come una strada concreta per il proprio futuro, al contrario dei loro coetanei del Settentrione, che si iscrivono all’università o prendono parte a costosi percorsi di formazione professionale.

Come abbiamo già raccontato, infatti, nelle stesse aree non solo si registra un costante incremento di abbandono scolastico, già tra i livelli più alti in Europa, ma anche l’aumento di quegli studenti che vivono la scuola sulla linea di galleggiamento e che, dopo una conoscenza generale delle materie, non andranno mai ad approfondirle perché effettivamente impossibilitati. Si chiama, questa, dispersione implicita e riguarda già il 9.5% (7% nel 2019) degli scolari. Anche qui, tuttavia, è tristemente necessario fare un distinguo: 5% nelle regioni del Nord, intorno al 10% nelle regioni centrali, sopra il 20% al Sud (Puglia e Calabria). Al 23% si attesta, invece, la dispersione nazionale che comprende sia l’implicita che l’esplicita. Tra il 35 e il 40%, in Campania, Calabria e Sicilia.

Nel 2019, uno studio dello SVIMEZ mostrava come il Nord ricevesse una percentuale della spesa pubblica di gran lunga superiore al Sud, 13400 euro contro i 10900 del Mezzogiorno. Inoltre, tra il 2008 e il 2018 la stessa è aumentata al Centro-Nord (+1.4%) e diminuita in modo significativo al Sud (-8.6%) e i numeri resi noti da Bankitalia nel marzo del 2021 non aprono a più rosee riflessioni: il tasso medio calcolato in termini di disoccupazione vedeva il Nord avere la percentuale più bassa al 6.1%, il Centro all’8.62% e il Sud al 15.16%, con il dato per ciò che riguarda le nuove generazioni toccare il 33% a livello nazionale. Conseguenze – palesi – dell’inesistente investimento che Roma fa sul Meridione.

Come se non bastasse, per il dodicesimo anno consecutivo la denatalità nello Stivale ha registrato l’ennesimo record storico dall’Unità di Italia. Un dato che non stupisce ma che spaventa se relazionato al rapporto nuovi nati-deceduti che, invece, aumenta il suo saldo negativo per un totale di 300mila persone in meno. Il fenomeno, ovviamente, ha forti ripercussioni anche sulla scuola. Meno bambini significa, infatti, meno studenti e meno studenti significa meno plessi scolastici. Solo negli ultimi cinque anni, il numero di alunni della scuola primaria è diminuito di oltre 200mila unità (-8%), con conseguenze soprattutto sulle piccole scuole. Gli istituti sono, oggi, circa 361 in meno, di cui 164 soltanto al Sud. E nel prossimo anno si stima che ne chiuderanno ancora.

Il dato peggiore  si registra in Piemonte, che ha 70 plessi in meno. Seguono Campania (-62), Sicilia e Calabria (-51), Veneto (-28), Abruzzo (-27), Lombardia (-26) ed Emilia-Romagna (-20). Il dato migliore, invece, è quello ligure con due scuole in più. Dunque, se nell’anno scolastico 2015/2016 gli alunni della primaria erano 2 milioni e 584mila, almeno 200mila in meno sono quelli che stanno seguendo le lezioni quest’anno, in particolare in Campania (-17897 alunni) e in Sicilia (-14mila ). Numeri, anche questi, che vanno a confermare quanto sopra.

Al di là della deprecabile scelta di incrementare le spese militari su cui per ovvi motivi non ci soffermeremo, viene da chiedersi – ancora una volta – qual è il futuro del Paese che stiamo costruendo, se lo stiamo costruendo. Qual è l’idea di domani che chi ci governa sta formulando mentre sempre più ragazzi non riescono a terminare gli studi, gli aspiranti ad affrontare i concorsi per l’insegnamento, le scuole – dalle infrastrutture alla digitalizzazione al personale – non possono, da sole, garantire una più completa (e valida) istruzione.

Se, tra le varie aziende che hanno aderito al progetto TED (licei per la transizione ecologica e digitale) c’è anche la Leonardo, la stessa che finanzia la guerra, prima produttrice di armi in Italia e tra le prime al mondo. La stessa che il Ministro della Difesa dichiara fondamentale per lo sviluppo dell’economia italiana, ma a non esserlo – mai – è la scuola. È la cultura. È il desiderio di un Paese che sappia e voglia investire nella formazione e non nella distruzione.

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