Sciopero scuola: nemmeno i docenti ci credono più

patrizio bianchi classi pollaioScarsi investimenti, aumenti irrisori, assenza di una necessaria stabilizzazione del personale precario: sono solo alcune delle motivazioni che, il 10 dicembre scorso, hanno portato la scuola in piazza. O, meglio, una piccola parte.

Ad aderire allo sciopero, proclamato dai sindacati confederali e di base – con l’eccezione della CISL –, infatti, è stato appena il 6% del personale scolastico, vale a dire meno di 90mila lavoratori su 1 milione 400mila dipendenti dell’istruzione, tra docenti e personale ATA. Una percentuale sin troppo bassa per avanzare delle pretese compatte e far ascoltare la propria voce a piani alti già normalmente disinteressati al dialogo. Sede principale delle manifestazioni, ovviamente, è stata Roma ma gli scioperi non sono mancati in tutto lo Stivale con adesioni diverse. Comuni, però, gli intenti.

Le proteste, come accennavamo, hanno riguardato i fondi previsti in Manovra di Bilancio per il settore istruzione, il rinnovo del contratto, la stabilizzazione dei precari e dell’organico Covid, una maggiore sicurezza per edifici sempre più fatiscenti e la risoluzione dell’annosa questione classi pollaio. In particolare, a montare la rabbia del personale scolastico è stata la Legge di Bilancio: solo lo 0.62% dei fondi stanziati, infatti, verrà destinato alla professione docente, per pochi e a premio, mentre sul contratto è di 87 euro la previsione di aumento, con ulteriori 12 euro legati alla dedizione.

Come sappiamo, il contratto è scaduto da ben tre anni, da quando cioè è stato firmato un aumento che non ha superato gli 85 euro lordi mensili, dopo nove anni di nulla. Nel frattempo, in dodici anni, gli insegnanti hanno perso circa il 16% del loro potere di acquisto, una riduzione che ha ridimensionato drasticamente l’appeal dello status di lavoratore della scuola.

Secondo i dati OCSE, le retribuzioni dei docenti italiani sono tra le più basse in UE. Le differenze di stipendio, si evince dal report, interessano tutti gli ordini e gradi scolastici e si attestano tra il 13 e il 15%. A confermare la drammaticità della situazione è il rapporto di Eurydice (Teachers and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2019/20) che vede l’Italia  fanalino di coda dei 38 differenti sistemi educativi europei.

Nel nostro Paese, così come nella maggior parte dei sistemi educativi UE, anche laddove sono aumentati gli stipendi, gli incrementi sono stati generalmente modesti o indicizzati all’inflazione e in alcuni casi addirittura inferiori. Significative differenze, però, si segnalano tra i vari Paesi nelle retribuzioni annuali di base all’inizio della carriera, che possono variare da 5mila a 80mila euro lordi, a seconda dello standard di vita misurato in termini di prodotto interno lordo pro capite: più alto è il PIL, maggiore è lo stipendio medio annuo. Gli stipendi iniziali degli insegnanti italiani si collocano tra 22mila e 29mila euro lordi in un anno. Tra 30mila e 49mila quelli dei colleghi belgi, irlandesi, spagnoli, austriaci, finlandesi, svedesi, islandesi, norvegesi. Addirittura superiori a 50mila euro in Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svizzera e Liechtenstein.

L’importo varia, ovviamente, anche con il progredire della carriera. In alcuni Paesi, come in Italia, l’anzianità, per gli insegnanti, corrisponde a modesti aumenti di stipendi (fino al 50%, ma solo dopo i 35 anni di servizio). Nello Stivale, inoltre, i docenti hanno stipendi diversi a seconda che insegnino alle materne o alle superiori, mentre in molte altre realtà europee non è così. Il corpo docente italiano è, dunque, stanco e ha chiesto, per l’ennesima volta, un adeguamento di contratto. Per ora, invece, è stato previsto a malapena lo stanziamento di risorse per un rinnovo pari a 87 euro lordi.

Come se non bastasse il confronto UE, i lavoratori dell’istruzione scolastica guadagnano 343 euro lordi in meno dei loro colleghi della Pubblica Amministrazione: se la retribuzione media di tutti i dipendenti statali è pari a 36782 euro, la scuola può contare su una media di 30143 euro (a esclusione dei dirigenti). Perché? Come abbiamo spesso ribadito, chi insegna non si limita a impartire un sapere – che, già di per sé, meriterebbe un adeguato e cospicuo apprezzamento economico. Chi insegna custodisce le chiavi della società: tramanda il passato, analizza il presente, forma i cittadini del futuro. Perché, dunque, il divario economico è ancora così netto? È tempo di colmare il differenziale contributivo esistente con l’Europa e con gli statali, in generale, e rendere il lavoro docente una professione nobile, come il suo intento, valorizzata economicamente e riconosciuta socialmente.

Non solo contratto, però: in piazza, sindacati e personale scolastico hanno chiesto, per l’immediato, anche un concorso DSGA facenti funzioni, riduzione del numero di alunni per classe, abolizione dei vincoli sui trasferimenti del personale, snellimento delle procedure e meno burocrazie. Tutte mozioni condivise e condivisibili che, tuttavia, non hanno portato i dipendenti della scuola a urlare in modo deciso e compatto, per una volta insieme, forse sfiduciati dalla rappresentanza sindacale o da quell’ormai diffusa convinzione che manifestare non porti a nulla.

E così, nelle stesse ore, a distanza, il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, intervenendo a un seminario online organizzato dall’Università di Udine, ha risposto ad alcune delle perplessità avanzate dagli scioperanti, annunciando le 100mila assunzioni da fare in un anno – nel tentativo di superare i tagli subiti dalla scuola a partire dalla riforma Gelmini del 2008, che a seguito della Legge 133/08 ha fatto perdere almeno 100mila cattedre e 2mila scuole autonome – e ricordando che, da quando è entrato in carica, il governo Draghi «ha riattivato il meccanismo dei concorsi, evitando qualsiasi sanatoria, e facendoli per 60mila persone in ruolo, in modo da immettere nuove forze. Inoltre, abbiamo fatto un bando per 40mila persone che assumeremo entro la prossima primavera».

In merito al PNRR, invece, il Ministro ha detto: «Abbiamo ottenuto la possibilità di fare grossi interventi, che riguardano 17.5 miliardi di euro, mai visti prima per la scuola, di cui 12.1 miliardi per interventi infrastrutturali e 5.4 per la condivisione delle competenze, ossia un intervento ragionato anche in termini di rapporto con lo sviluppo e fortemente legato all’evoluzione dell’economia dell’educazione negli ultimi anni». Ha segnalato, poi, il già annunciato programma di investimenti del governo da 5.2 miliardi, di cui 2.4 per la costruzione di asili nido, anche con l’obiettivo di superare le divergenze territoriali esistenti tra le diverse aree del Paese in termini di disponibilità di queste strutture, che diventano diseguaglianze sostanziali.

A fronte di questi investimenti, dunque, il Ministro Bianchi ha definito ingiusta la posizione di chi si è fermato ed è sceso in piazza. Ma cosa c’è di ingiusto nel manifestare il proprio dissenso, nel chiedere i propri diritti? Il titolare del dicastero non può ignorare che le mozioni avanzate non sono nuove ma, anzi, abbiano un’annosità tale da non poter più essere messe a tacere. Un dissenso a cui, nel rispetto del proprio ruolo, dovrebbe unirsi per chiederne conto quando quello stesso governo di cui vanta azioni e sostegno stanzia fondi per gli edifici e non per il personale, quando pensa a interventi una tantum e non a risorse strutturali che possano dare linfa vitale a un sistema che arranca da troppo, quando impone l’obbligo vaccinale ai docenti e non a tutti i dipendenti pubblici e non solo, garantendo sicurezza a quello stesso personale che, sin da subito, ha risposto in modo responsabile all’emergenza. Quando a sacrificarsi è sempre la scuola, ma nessun sacrificio è pensato a suo favore, per quella istituzione che sempre meno è centrale nel dibattito nazionale.

Quello del 10 ha anticipato lo sciopero generale indetto per il prossimo 16 dicembre. Non sappiamo quale sarà la risposta del Paese, dei lavoratori sempre più umiliati e sfruttati. Quel che sappiamo è che, comunque la si pensi, manifestare è un diritto. E la scuola, di diritti, è ancora troppo manchevole.

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