Riapertura scuole: un (giusto) muro di no contro il governo

riaperturaÈ un muro di no quello che sta cercando di dissuadere il governo in previsione della riapertura degli istituti scolastici. A convincere sempre meno gli addetti ai lavori e, al contempo, ad allarmare gli esperti è lo stesso quesito che li tormentava in estate: la scuola è sicura?

Previsto per il 7 gennaio, il rientro in aula unisce docenti, sindacati, Regioni e medici, tutti – o quasi – convinti che sia ancora troppo presto, che le adeguate condizioni millantate – ma non comprovate – dall’esecutivo risultino tutt’oggi insufficienti a garantire un ripristino della didattica in presenza con maggior sollievo e rischio ridotto. In particolare, le parti in causa invitano a un’ulteriore riflessione, chiedendo di attendere appena qualche settimana, quando i dati potranno raccontare se e quanto le misure adottate nel periodo natalizio abbiano effettivamente avuto un impatto sulla curva dei contagi. Un orecchio dal quale a Palazzo Chigi sembrano non voler sentire. Lo stesso Premier Giuseppe Conte ha ribadito che, a prescindere dalle possibili nuove limitazioni, giovedì gli studenti torneranno in classe.

Al momento, almeno per i primi giorni, è prevista la riduzione delle presenze al 50% per poi portarla al 75% dopo quello che viene definito stress test, con particolare attenzione al sistema dei trasporti locale che costituisce uno dei principali nodi intorno ai quali ruota l’intera questione scuola e che ancora, nonostante le rassicurazioni del Ministro De Micheli, lascia titubanti i pendolari e non solo. A tal proposito, per ovviare ad ataviche carenze, si è avanzata l’ipotesi di entrate e uscite scaglionate al fine di evitare assembramenti alle fermate e a bordo di autobus e metropolitane. La soluzione del doppio turno (8-14/10-16), per ora, è stata approvata da Abruzzo, Calabria, Campania (a eccezione della provincia di Benevento), Friuli Venezia Giulia (tranne la provincia di Gorizia), Liguria, Lombardia, Puglia e Toscana (a eccezione della provincia di Lucca, dove già si registra flessibilità in entrata). Ingresso unico, invece, in Basilicata, Emilia-Romagna, Molise, Sardegna (tranne nella provincia di Cagliari che, solo per i licei, adotta il doppio turno), Veneto (a eccezione della provincia trevisana), Marche, Piemonte, Sicilia e Umbria.

Discorso più complesso è quello laziale, di Roma in particolare, dove risulta più difficile garantire entrate e uscite dilazionate. Ma anche più a sud, Francesco De Rosa, presidente Associazione nazionale presidi Campania, non nasconde le proprie perplessità: «La situazione è analoga a quella del Lazio: il problema trasporti, anche se parzialmente migliorato, persiste ed è acuito dallo scaglionamento imposto dalle prefetture e dal consistente pendolarismo. […] Noi dirigenti scolastici non abbiamo piena contezza della situazione perché siamo stati esclusi dai tavoli con i prefetti ma rileviamo che lo scaglionamento degli orari è difficilmente realizzabile, tanto più che il quadro è aggravato dall’aumento dei contagi. In Campania in zone più svantaggiate come l’Irpinia e Benevento, ma anche la provincia di Salerno stretta e lunga oltre 100 km, il 40% degli studenti viaggia per andare a scuola ed è costretto ad almeno 90 minuti di spostamento per raggiungere la destinazione. Solo a Napoli e Caserta la situazione è un po’ meno complessa».

I dubbi, comunque, non mancano in tutto lo Stivale. Nello specifico, il Presidente Vincenzo De Luca ha già chiarito che, almeno nella terra del Vesuvio, il 7 gennaio non si tornerà in aula. È attesa nelle prossime ore, infatti, la prima ordinanza del 2021, quella che – secondo indiscrezioni – chiarirà quando gli studenti campani faranno il loro ritorno tra i banchi, probabilmente divisi tra il 18 e il 25 di questo mese. Titubanze anche in Puglia e in Veneto, tra l’altro condivise persino dal consulente del Ministero della Salute Walter Ricciardi che ha proposto di rinviare la ripartenza a metà gennaio. Più serena, invece, si dichiara la Sicilia che adotterà il modello piemontese di Scuola Sicura, vale a dire un progetto di screening costante, ma volontario, cui sottoporre alunni, docenti e personale ATA. È proprio questa, in effetti, un’altra delle grosse lacune che si registrano a livello nazionale, l’assenza di monitoraggio richiesta da più parti sin dall’inizio della pandemia. Anche su queste pagine.

Tracciamento dei contagi, vaccino, potenziamento del trasporto pubblico, individuazione di spazi nuovi, ammodernamento delle strutture, assunzione di personale, infatti, sono condizioni imprescindibili per non ricadere in false partenze. Condizioni, alcune, imprescindibili persino dal COVID. Ancora una volta, invece, il governo nello specifico e la classe politica tutta hanno messo in agenda priorità diverse, esigenze che nulla avessero a che fare con la scuola o che potessero rivelarsi a essa favorevoli. Eppure – lo ha scritto soltanto poco fa il Ministro Azzolina – è fra i banchi che si costruisce, mattone dopo mattone, il futuro di ciascuna e ciascuno, il futuro della nazione. Per questo, sulla scuola non possiamo arrenderci e dobbiamo, ciascuno degli attori coinvolti, operare uniti. Ma di unito – lo denunciamo da tempo – non c’è nemmeno l’esecutivo. Insieme, verso un unico obiettivo, non lavora nemmeno la maggioranza, la stessa che non ha mai fatto mancare la sua disapprovazione pubblica nei confronti del Ministro dell’Istruzione, già bersaglio di troppi all’interno della frastagliata istituzione scolastica. E in questo marasma a pronunciare la parola chiave è proprio la titolare del MI: futuro.

Analizzando l’oggi guardando al domani, infatti, il rischio più grande è che si possa diventare sempre meno competitivi, lì dove la didattica a distanza prima e quella integrata poi non avranno saputo colmare vuoti che gli studenti si porteranno dietro nella loro vita da adulti. Il sistema disomogeneo che sta caratterizzando questi mesi, inoltre, con la possibilità per ogni Regione di decidere chi, dove, cosa, quando – spesso in totale controtendenza rispetto a un parametro più nazionale e, talvolta, persino oggettivo, figlio di pura propaganda – potrebbe significare dislivelli interni ed esterni nel confronto interregionale e con la media europea. La politica internazionale, infatti, ha tentato in tutti i modi – anche nel corso dei vari lockdown – di tenere aperti gli istituti scolastici, di consentire agli alunni di seguire le lezioni in aula, di restare a contatto con i propri coetanei, aiutandoli in termini tanto formativi quanto pedagogici prevenendo o affrontando le inevitabili difficoltà che le limitazioni, il distanziamento sociale, le mascherine sempre in volto hanno causato ai più piccoli come ai più grandi. Sforzi che, nel nostro Paese – tra l’altro, il meno digitalizzato dell’intero continente –, sin troppo spesso i docenti, da soli, hanno tentato e ancora tentano di fare, seppur privi del supporto istituzionale, e persino mediatico, perché fannulloni, privilegiati che hanno il posto fisso e si lamentano.

È grazie a loro, però, che la scuola non ha chiuso. A esserlo da tanto, invece, sono le strutture e, a malincuore ma con onestà intellettuale, è giusto che sia così se non in grado di garantire sicurezza. Non è bastato, purtroppo, avere più vittime di ogni altro Paese d’Europa, non è bastata la batosta improvvisa della prima ondata, tantomeno quella prevista della seconda. Non abbiamo imparato niente e niente è cambiato, nemmeno la pubblicità di un modello scolastico finalmente rivisitato. Finalmente più virtuoso, capace – per citare il Ministro – di costruire, mattone dopo mattone, il futuro di ciascuno e ciascuna, il futuro della nazione. A tal proposito, vale la pena riprendere una riflessione di Enrico Mentana: Quella dell’istruzione è la principale “industria” del Paese. Tutte le altre nel corso dei mesi sono state riaperte e messe in condizione di produrre. La scuola no. Stiamo facendo centinaia di miliardi di debito che i giovani di oggi dovranno restituire; non un capitolo del progetto di Recovery Fund riguarda il sostegno all’occupazione giovanile; la lesione plateale del diritto allo studio e della sua dignità costituisce il terzo indizio, e per dirla con Agatha Christie fa prova. Un Paese che non si cura del futuro non ha futuro.

La questione scuola, si sa, ha un peso politico troppo importante per essere procrastinata ancora a lungo. Parte della tenuta della maggioranza si regge su di essa e a essa deve per forza dare una risposta che non si riveli nuovamente e irrimediabilmente fallimentare, dando adito alle opposizioni di attaccare più di quanto già non facciano. Ciononostante, la sensazione che tale possa confermarsi dà un certo, innegabile, fastidioso prurito. Che la ventennale improvvisazione e il disinteresse abbiano portato alla situazione odierna è ormai comprovato. Tuttavia, non basta incolpare il prima per giustificare il dopo. Quello che si sta presentando agli studenti e, con loro, agli insegnanti sempre più sviliti e avviliti, quindi all’Italia tutta, è un conto troppo salato per non intervenire subito. Per una volta, almeno, con coscienza.

 

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