La scuola riapre, o forse no: Conte mescola (ancora) le carte

conteLa scuola riapre, o forse no. È un gioco che va avanti da settimane quello del rientro in aula degli studenti italiani e, a dirla tutta, ha anche un po’ stancato. A rimescolare le carte, quando sembrava che si fosse ormai optato per il prossimo gennaio, è stato il Premier Giuseppe Conte che martedì, a colloquio con i capigruppo della maggioranza, avrebbe avanzato l’ipotesi 14 dicembre da lui definita un bel segnale per il Paese e per i ragazzi.

Al momento, la proposta è stata accolta con maggiore convinzione soltanto da Italia Viva, che si è detta possibilista a fronte di un intervento sul sistema dei trasporti, già richiesto nei mesi scorsi dal leader Matteo Renzi. Meno convinti, invece, PD e LeU, che si sono pronunciati contrari, forse per non screditare la linea dura che il Ministro Speranza sta pensando di adottare già dal prossimo DPCM o, comunque, in attesa del suo parere ufficiale, arrivato nella mattinata di mercoledì in Senato, quando ha ribadito che l’obiettivo dell’esecutivo è riportare i ragazzi in aula, pur sottolineando la necessaria prudenza. In cambio, non si hanno notizie della posizione ufficiale del MoVimento 5 Stelle, sebbene già in passato si fosse detto favorevole, in pieno sostegno della sua Lucia Azzolina.

Torna tutto in discussione, dunque, con la sorte di 2 milioni e 600mila studenti delle superiori che ancora non sanno quando e se rientreranno in aula. Con loro, ovviamente, genitori e insegnanti che – a quanto pare – non meritano di saperne di più ad appena due settimane dall’eventuale fatidica data. Il discorso, in effetti, si era già riproposto a fine novembre, quando in molti avevano insistito affinché le lezioni fossero ripristinate mercoledì prossimo, il 9 dicembre, causando scontri all’interno della maggioranza stessa e tra governo e Presidenti di Regione – Zaia e De Luca, per citarne alcuni –, ma anche tra governo e città metropolitane.

La ripresa in queste condizioni, infatti, spaventa tutte le parti in causa, consapevoli che poco o nulla è stato fatto per restituire a studenti e personale scolastico istituti capaci di accoglierli e mezzi di trasporto adeguati alle loro esigenze. Piuttosto, la corsa ha visto spostare l’attenzione dai problemi atavici a una querelle scuole aperte-scuole chiuse che suona più come una battaglia dal piglio politico che come la concreta volontà di garantire il diritto all’istruzione e il diritto al lavoro, tutelando la salute delle persone coinvolte. È, dunque, davvero così necessario fissare la ripresa al 14 dicembre? A conti fatti, si ricorrerebbe alla didattica in presenza per appena pochissimi giorni, rischiando tuttavia di dar vita a focolai certamente evitabili. Concentrarsi sul dopo Epifania, invece, consentirebbe alle istituzioni e ai singoli istituti di prepararsi ancora nelle prossime settimane, con gli occhi sempre puntati sulla curva dei contagi e sulle possibili – non fantomatiche, non propagandistiche, non apparenti – necessarie migliorie da apportare all’intero sistema.

Intanto, a proposito della riapertura anticipata, si attende il parere del CTS che, come ribadito dal coordinatore Agostino Miozzo, non ha mai sostenuto la necessità di chiudere le scuole, anche alla luce dell’intervento che il Ministero dell’Istruzione ha richiesto ai prefetti per coordinare, nei rispettivi territori, l’organizzazione del sistema del trasporto legato all’attività scolastica e l’istituzione di tavoli ai quali coinvolgere presidi, amministratori e responsabili dei mezzi pubblici al fine di avanzare soluzioni differenziate per ogni zona con orari e ingressi probabilmente scaglionati.

Di parere meno favorevole, invece, l’Associazione Nazionale Presidi che, tramite le parole rilasciate all’ANSA dal presidente Antonello Giannelli, ha sottolineato la volontà di tornare in aula ma di non farlo a dicembre come operazione simbolica. Perché è di questo che si tratterebbe: di puro marketing politico, di propaganda. Persino la Commissione UE, che vede gli istituti aperti in gran parte dei Paesi d’Europa, anche quelli in lockdown, sta chiedendo di allungare le vacanze scolastiche al fine di ridurre i rischi di trasmissione nel periodo che segue la stagione delle festività. È quindi incomprensibile questa insistenza tutta italiana di accelerare i tempi, quando di tempo se n’è perso troppo mentre ancora si poteva intervenire.

In estate, ad esempio, quando il dibattito si è arenato sui banchi monoposto e i banchi con le rotelle, mentre le necessità erano ben altre e decisamente più urgenti. Come la messa in sicurezza degli istituti, le assunzioni non più procrastinabili, lo scorrimento delle graduatorie o, in ultima istanza, la messa a punto di un sistema di screening e di tracciamento che consentisse – davvero – di individuare e arginare il virus nei tempi e nei modi più rapidi ed efficaci possibili. Ancora oggi, tutto questo non è accaduto e non accadrà il 14 dicembre, tantomeno – sì, siamo sfiduciati – a gennaio, quando sarà difficile continuare a giustificare la didattica a distanza senza ammettere il fallimento. Più probabile che si torni in presenza fingendo rassicurazioni.

Gli ultimi dati resi noti sul contagio in classe risalgono al 31 ottobre e sono stati diffusi da Wired appena poche ore fa. Numeri parziali – perché riguardanti 2546 Comuni degli oltre 6700 sul cui territorio risiede almeno una scuola – quantificabili in 64950 positività nella popolazione scolastica, vale a dire tra alunni, docenti e collaboratori del primo e del secondo ciclo. Nello specifico, la mappa elaborata dalla nota rivista racconta che le province dove la percentuale è più alta sono quelle di Cuneo, VareseMonza e Brianza, Massa CarraraPisa, ArezzoPerugia, TerniIsernia, in cui si sono verificati circa 20 casi di positività ogni 1000 persone (studenti e docenti). La situazione migliora nelle province di Torino, VercelliBiella, MacerataFirenze, PistoiaL’Aquila e Oristano (tra i 10 e i 15 casi). Inferiore è l’incidenza in Campania – dove sappiamo quanto poco le scuole siano state aperte –, in Veneto e in Friuli Venezia Giulia.

L’Emilia-Romagna, la Lombardia e la Liguria, invece, hanno tassi simili dentro e fuori le aule, con il resto del Paese che, a sua volta, registra un’incidenza in classe più alta che nella popolazione generale. Infine, nello specifico dei Comuni, per ciò che concerne elementari e medie la classifica dei primi dieci riguarda Roma (2850), Milano (1202), Torino (647), Genova (513), Napoli (355), Monza (334), Perugia (322), Palermo (302), Firenze (235) e Catania (204). Mentre per le superiori la lista delle prime dieci è così composta: Roma (1967), Milano (1332), Torino (645), Firenze (599), Genova (421), Napoli (388), Monza (215), Perugia (229), Palermo (232) e Catania (107).

I dati di cui sopra non sono ancora stati diffusi dal MIUR né dall’Istituto Superiore di Sanità, chiusi nel loro silenzio anche dopo la pubblicazione di Wired. A commentarli, però, ha pensato Massimo Galli, il primario del Sacco di Milano: «Riapriamo tutto prima di Natale dinanzi a una situazione di questo genere? […] Siamo di fronte a un numero approssimato per difetto». E per difetto – stavolta di fabbrica – c’è il rischio che la partita non finisca qui. Che la scuola si faccia di nuovo, e ancora, vittima sacrificale. L’offerta all’altare della poltrona.

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