Scuola al via: un primo bilancio senza insegnanti, banchi e tecnologia

Sono trascorse poche meno di due settimane dal rientro in aula di molti studenti e docenti italiani. Tanti, invece, attendono ancora il primo suono della campanella tra dubbi, sconforto e naturale trepidazione. Eppure, in un anno che si appresta a essere straordinariamente imprevedibile, l’unico sprazzo di normalità sembrano le immancabili polemiche e le ormai inevitabili mancanze.

Non c’è anno scolastico che non inizi nel caos più totale, complice una politica che sulla scuola e per la scuola non investe e non progetta, soprattutto su quella pubblica. E, così, anche stavolta si è arrivati impreparati ad affrontare non solo le ataviche criticità ma persino una pandemia incapaci di una qualsiasi forma di gestione delle stesse. Tra istituti fatiscenti, lavoratori fragili, classi pollaio e cattedre scoperte, dunque, si è rivelato più che scontato che i primi weekend a disposizione significassero scioperi e malumori con manifestazioni che, dal 24 settembre, si protrarranno fino al prossimo 3 ottobre. E siamo soltanto alle battute incipienti.

Ciò che docenti, sindacati e studenti chiedono, con il sostegno di famiglie preoccupate per l’incolumità dei propri ragazzi, è una serie di rassicurazioni in merito allo svolgimento delle lezioni in massima sicurezza e il supporto di tutti gli strumenti necessari alla tutela di quel diritto allo studio costituzionalmente garantito ma spesso negato. Sono in tanti, infatti, a lamentare carenze e malfunzionamenti, soprattutto per ciò che concerne la consegna con il contagocce dei nuovi banchi e i dispositivi tecnologici finalizzati alla messa a punto di una didattica che, almeno per i prossimi mesi, sarà a metà tra tradizionale e integrata. Inoltre – ed è, senza dubbio, l’aspetto più importante – sono ancora troppe le cattedre rimaste scoperte. A concorsi rinviati, infatti, non sono bastate né le assunzioni straordinarie – decisamente troppo poche – né la call veloce: gli insegnanti, dunque i supplenti, mancano e continueranno a mancare.

Sulle GPS, in fondo, ci eravamo già espressi e, come noi, tutti gli addetti ai lavori avevano denunciato la propria perplessità in merito alle novità inaspettatamente decretate. A lasciarci titubanti erano stati i criteri che avrebbero modificato il vecchio sistema con l’introduzione dell’obbligo dei crediti formativi universitari – apertamente contrastante con i bandi di concorso in essere –, le nuove tabelle relative ai titoli necessari e le tempistiche eccessivamente strette. I candidati, infatti, hanno potuto presentare domanda soltanto dalle 15:00 del 22 luglio fino alle 23:59 del 6 agosto. Appena quindici giorni per quasi un milione di richieste inviate, per la prima volta, in via telematica. Il rischio, anche alla luce dell’ulteriore novità costituita dalla presentazione ex novo di tutta la documentazione concernente i servizi svolti senza possibilità di modifica o integrazione, era che si potesse arrivare a invalidare numerose istanze a causa dei tanti possibili errori. Esattamente quel che è accaduto.

Come temuto, infatti, all’atto della valutazione, le scuole polo si sono ritrovate ad analizzare domande piene di inesattezze e punteggi calcolati male che hanno visto anni di esperienza scavalcati da giovani aspiranti sprovvisti dei titoli richiesti. I problemi maggiori, ovviamente, si sono riscontrati nelle grandi città, su tutte Milano, dove le istanze da evadere superano le 100mila e quelle errate costituiscono più della metà. Discorso simile a Napoli, dove le graduatorie pubblicate sono state ritirate a data da destinarsi. Un’incombenza non da poco che il Ministro Azzolina preferisce definire piccole criticità. Non è una piccola criticità, invece, il fallimento della novità che, secondo il MIUR, avrebbe reso più efficiente il sistema di copertura delle cattedre: la cosiddetta chiamata veloce, un’altra innovazione rivelatasi disastrosa, come – anche in questo caso – ampiamente previsto.

Per call veloce si intendeva la possibilità – su base del tutto volontaria – di spostarsi in un’altra regione o provincia per ottenere più rapidamente la cattedra andando a occupare posti che altrimenti sarebbero rimasti vacanti e, quindi, destinati a supplenza. Un meccanismo fortemente sostenuto dalla titolare del MIUR e votato in Parlamento lo scorso dicembre che, tuttavia, non ha mai convinto i sindacati soprattutto nell’ottica del vincolo quinquennale scattato il 1° settembre. Un limite che è, forse, il vero motivo dell’assenza di docenti che dalle regioni del Sud, ricettacolo di precari, si propongono per i posti disponibili al Nord, a discapito di quanti titolano che la loro reticenza è dovuta alla paura di nuovi lockdown. Un motivo che, si confermasse, non suonerebbe comunque tanto grave in un periodo di così poche certezze.

Insomma, nonostante ci avessero ampiamente promesso che l’a.s. 2020/2021 sarebbe ripartito come e meglio degli anni passati, nulla di quello che a cui stiamo assistendo nelle prime settimane sembra diverso dalle criticità che da sempre contraddistinguono la scuola italiana. Inoltre, con la curva epidemiologica in salita, i vari istituti chiusi e le tante classi già in quarantena, con insegnanti e famiglie costantemente sotto stress, tutto, relativo alla scuola, continua a far tremare i polsi. E l’inverno alle porte è soltanto un altro cattivo presagio.

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