Rapporto OCSE 2022: l’Italia paghi i docenti

contratto OCSEEducation at a Glance 2022 è il titolo dell’ultimo report diffuso dall’OCSE sullo stato dell’istruzione nel mondo. Più di cento grafici e tabelle forniscono informazioni chiave sui risultati delle istituzioni educative, sull’impatto dell’apprendimento tra i Paesi, l’accesso, la partecipazione e la progressione nell’istruzione, le risorse finanziarie investite nella formazione e negli insegnanti, nonché sull’ambiente di apprendimento e l’organizzazione delle scuole.

Pubblicato lo scorso 3 ottobre, il report è incentrato, soprattutto, sull’aumento del livello di istruzione e sui benefici associati per gli individui e per le società. Considera anche i costi del settore e la suddivisione della spesa tra i livelli di governo e tra lo Stato e gli individui. I dati su cui vogliamo riflettere oggi, però, coinvolgono soltanto alcune sfere e non costituiscono motivo di vanto per il nostro Paese.

Il primo riguarda gli stipendi degli insegnanti italiani, un tasto dolente intorno al quale si è mossa anche la recente campagna elettorale.  Secondo il report, tra il 2015 e il 2021, nei Paesi OCSE la media delle buste paga degli insegnanti delle scuole medie con quindici anni di anzianità è aumentata del 6%. In Italia, invece, se si considera la crescita del costo della vita, nello stesso periodo l’incremento stipendiale è stato pari ad appena l’1%. Se si guarda, poi, agli altri laureati, a fine anno gli stessi docenti avranno guadagnato circa il 27.4% in meno. Non un buon risultato al netto delle competenze e dell’abnegazione richiesti.

La conseguenza più diretta è non soltanto lo scarso riconoscimento sociale della categoria, ma la sempre minore appetibilità di una professione che si fa poco attrattiva e che non è più capace di intercettare volontà e bisogni del singolo come dell’intera collettività.

Al netto del lavoro svolto quotidianamente, il dato più allarmante riguarda tuttavia quel 30% in meno della media dei Paesi dell’area in esame che rappresenta quanto percepiscono i docenti italiani: vale a dire circa 300, 400 euro al mese netti che mancano dalle loro tasche. Non una novità, ma un importante – l’ennesimo – campanello d’allarme.

Da anni, le retribuzioni degli insegnanti italiani sono tra le più basse in UE. Le differenze di stipendio interessano tutti gli ordini e gradi scolastici sin dagli inizi della carriera, variando dai 5mila agli 80mila euro lordi, a seconda dello standard di vita misurato in termini di prodotto interno lordo pro capite: più alto è questo dato, maggiore è lo stipendio medio annuo.

Le retribuzioni iniziali degli insegnanti italiani si collocano tra i 22mila e i 29mila euro lordi annui. Tra i 30mila e i 49mila quelli dei colleghi belgi, irlandesi, spagnoli, austriaci, finlandesi, svedesi, islandesi, norvegesi. Addirittura superiori a i 50mila euro gli stipendi di Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svizzera e Liechtenstein. È anche su queste basi, dunque, che nelle scorse settimane è stata fortemente criticata l’introduzione del docente esperto, la cui figura sarà attiva dall’anno scolastico 2023/2024 come da Decreto Aiuti Bis.

Come sappiamo, esso sarà selezionato tra gli insegnanti di ruolo che abbiano conseguito una valutazione positiva nel superamento di tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili, al termine dei quali chi verrà scelto guadagnerà all’incirca 5650 euro annui in più rispetto ai propri colleghi. Stando ai tempi di ciascun percorso formativo, dunque, non si avranno docenti esperti prima dei prossimi nove anni.

Tali figure, inoltre, non potranno essere più di 8mila, vale a dire una per ogni istituto e, dopo la nomina, dovranno restare nella stessa istituzione scolastica per almeno il triennio successivo al conseguimento della qualifica. Nel frattempo, quella che qualcuno osa chiamare mezza rivoluzione, nei fatti, non cambierà né migliorerà il sistema scolastico che da troppo attende una seria proposta, in particolare per ciò che concerne il personale, il cui contratto è fermo da tempo immemore.

A questa necessità si è rifatta, inevitabilmente, anche l’ultima campagna elettorale, durante la quale la voce che ha accomunato tutti i programmi dei principali partiti in lizza è stato l’adeguamento dello stipendio dei docenti agli standard europei, che a oggi vedono l’Italia lontanissima dalle prime posizioni e i nostri insegnanti ultimi tra i dipendenti della pubblica amministrazione. A farsene promotore anche Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni che godrà della maggioranza al governo e che, stando alle statistiche ufficiali, è stato il più votato proprio dai docenti dello Stivale.

Eppure, dal centrodestra al centrosinistra, tutti negli anni più recenti hanno governato – anche tutti insieme – e nessuno ha realmente portato avanti le istanze del mondo dell’istruzione e di chi ci lavora quotidianamente. Anzi, dalla Riforma Gelmini alla Buona Scuola di Renzi, fino al dimissionario tecnico Patrizio Bianchi, le difficoltà, le carenze, le inefficienze sono rimaste sempre le stesse. Ciascuno dei partiti candidati e trionfanti ha contribuito allo smantellamento di un settore che è più di un bacino di voti, di un tornaconto elettorale, di un programma vuoto che puntualmente non viene rispettato.

Il problema, d’altro canto, non riguarda soltanto gli stipendi dei docenti che speriamo vengano effettivamente adeguati, ma l’intero comparto scuola per il quale il nostro Paese registra la percentuale minore di investimenti anche secondo l’OCSE. La spesa per l’istruzione, in Italia, è tra le più basse dell’Unione Europea. Pari al 4% del Prodotto Interno Lordo (contro il 4.6% della media UE) e all’8.2% della spesa pubblica totale (9.9% in UE), essa è diminuita del 7% tra il 2010 e il 2018 e, per le scuole superiori, ridottasi fino a quasi il 20% negli ultimi dieci anni. Stesso discorso per l’università, dove la spesa è la più bassa dell’Unione Europea. E questi dati, con l’incremento delle spese militari fino al 2% del PIL, sono destinati addirittura a peggiorare.

Una condizione resa ancora più intollerabile se si pensa che, invece, le retribuzioni dei dirigenti scolastici corrispondono a cifre piuttosto elevate, anche rispetto ai colleghi europei. Se, infatti, il corpo docenti, in media, percepisce 42800 euro lordi annuali, pari a 1750 euro mensili, un DS di scuola primaria di secondo grado italiana percepisce circa 90000 euro, comprensivi di indennità e bonus produttivi, con un importo netto pari a 3500, 4000 euro mensili. In pratica, circa il 73% in più dello stipendio di un lavoratore full time laureato e il 2.38 volte di più di quanto arriva ai loro stessi insegnanti.

Senza sminuire la mole di lavoro e il diverso grado di responsabilità, tale discrepanza tra i docenti e i dirigenti scolastici non sembra un fattore positivo perché mette i primi in una condizione eccessivamente subordinata ai secondi, sia in termini economici sia di potere che va a delinearsi – a discapito dell’intero reparto scuola – all’interno di ciascun istituto.

Insomma, la sfida di chi siederà al Ministero dell’Istruzione – e i nomi in ballo non offrono fiducia – sarà impegnativa, ricca di obiettivi da raggiungere e problemi da risolvere. Speriamo che verrà accolta.

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