Sciopero scuola: il 30 maggio tutti in piazza

proteste aslFallito ogni tentativo di conciliazione, la scuola scende in piazza e lo fa il prossimo 30 maggio. I sindacati sono tutti d’accordo, ora tocca ai docenti dimostrare o meno compattezza. Il motivo principale della proclamazione della manifestazione è il recente decreto governativo su reclutamento e formazione, un documento che – come spiegavamo qui – non può in alcun modo soddisfare gli aspiranti o gli insegnanti.

«La rigidità del Ministero rispetto alle questioni sollevate non ha lasciato margini, per questo abbiamo deciso di avviare un percorso di forte protesta, con diverse forme di mobilitazione, non escluso lo sciopero degli scrutini, e di informazione capillare del personale della scuola». Il prossimo appuntamento sarà, dunque, quello dei direttivi unitari fissato per venerdì 13 maggio. Poi ci sarà solo contestazione. Almeno su carta.

La decisione è arrivata al termine di una riunione svoltasi al Ministero del Lavoro dove nessuna risposta è giunta in merito alle richieste delle organizzazioni sindacali di modifica del dl 36. «Su tre punti essenziali è mancata ogni forma di possibile mediazione: lo stralcio completo delle disposizioni di legge che incidono sulla libera contrattazione, l’individuazione di risorse finanziarie adeguate per procedere al rinnovo contrattuale, la stabilizzazione del personale precario che viene enormemente penalizzato dalle nuove regole». Lo sciopero riguarderà l’intera giornata.

Si è espresso, a tal proposito, anche il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi: «Il nuovo decreto, che fa parte del disegno riformatore previsto nel PNRR, delinea regole chiare per chi vuole entrare nella scuola, compresi i precari, e un preciso percorso formativo per accedere all’insegnamento e durante tutta la vita lavorativa». Quindi, a detta del Ministro dell’Istruzione non vi sarebbero i presupposti per contestarne i contenuti. E ancora: «Rispetto le decisioni sindacali. Voglio ribadire però che questo governo ha sempre investito sulla scuola fin dal suo insediamento e sta continuando a farlo. […] Stiamo investendo massicciamente nella formazione dei nostri insegnanti. Quest’anno abbiamo già assunto tramite concorso 110mila persone, ne assumeremo altre 150mila nel corso del 2022 e 70mila entro il 2024». Eppure, i dati dicono altro.

Il Documento di Economia e Finanzia predisposto nel pomeriggio del 6 aprile scorso dal Consiglio dei Ministri preannuncia, infatti, un ulteriore taglio al mondo della scuola. Una scelta che il Ministero definisce obbligata: Da tempo le proiezioni ufficiali evidenziano una tendenza generalmente comune, anche se con intensità diverse nei paesi dell’Unione Europea, a un rapido invecchiamento della popolazione. Ciò comporta, in primo luogo, una riduzione significativa della popolazione attiva e un maggiore carico su di essa delle spese di natura sociale.

Così, se nel 2020 la spesa per l’istruzione è stata pari al 4% del Prodotto Interno Lordo, nel 2025 è destinata a scendere al 3.5% per assestarsi all’incirca sulla stessa percentuale negli anni successivi. Una spesa che – come abbiamo già raccontato –, nel Paese che ha sostenuto l’incremento delle spese militari del Paese fino al 2% del PIL, è già tra le più basse dell’Unione Europea (dove, in media, raggiunge il 4.6%). Numeri che chiariscono le priorità di chi ci governa e smentiscono – ma non ne avevamo dubbi – la reale volontà di combattere l’abbandono scolastico e il profondo gap tra Nord e Sud.

Lo scenario relativo all’istruzione, tuttavia, potrebbe ancora cambiare, e in peggio, se il calo demografico dovesse aumentare ulteriormente, come sta già succedendo. Nell’ultimo triennio, infatti, il totale dei neonati è sceso – per la prima volta dal 2015 – sotto il mezzo milione e non è mai parso voler risalire. La drastica riduzione di nascite in Italia, dunque, sembra ormai aver raggiunto caratteristiche strutturali ben definite, destinate a raccontare, ancora e a lungo, il futuro di un territorio che invecchia senza un vero ricambio generazionale. Le motivazioni, ovviamente, sono molteplici e riguardano l’intero Stivale. L’ultima, ma solo in ordine cronologico, è la pandemia, di cui l’ISTAT ha registrato i primi effetti nel suo rapporto relativo alla natalità del 2020.

Per il dodicesimo anno consecutivo, la denatalità nello Stivale ha registrato l’ennesimo record storico. Un dato che, dicevamo, non stupisce ma spaventa se relazionato al rapporto nuovi nati-deceduti che, invece, aumenta il suo saldo negativo per un totale di 300mila persone in meno. Il fenomeno, ovviamente, ha forti ripercussioni anche sulla scuola. Meno bambini significa, infatti, meno studenti e meno studenti significa meno plessi scolastici. Solo negli ultimi cinque anni, il numero di alunni della scuola primaria è diminuito di oltre 200mila unità (-8%), con conseguenze soprattutto sulle piccole scuole. Gli istituti sono, oggi, circa 361 in meno, di cui 164 soltanto al Sud. Nel prossimo anno, ne chiuderanno ancora. E lo faranno dal Piemonte alla Sicilia.

Per il Ministro Bianchi, invece, non è tutto perduto: «Fino al 2026 l’organico rimarrà inalterato e impiegato anche per ridurre la numerosità delle classi. Le risorse che si libereranno dopo, a causa del drammatico tasso di denatalità, saranno reinvestite nel settore. Incrementeremo con un emendamento le risorse del Fondo per l’incentivo alla formazione». Vede il bicchiere mezzo pieno, dunque: «Potenziamo poi la formazione continua dei nostri insegnanti, con un focus sull’educazione al digitale, sulle materie scientifiche e sull’innovazione didattica, per accompagnare e orientare gli studenti nel percorso di studio e di vita». Risposte che, tuttavia, suonano evasive e non sembrano centrare il focus delle rimostranze.

Come sappiamo, nel decreto contestato si definiscono le modalità di formazione iniziale, abilitazione e accesso all’insegnamento nella scuola secondaria così ripartite:

– un percorso universitario abilitante di formazione iniziale (per almeno 60 crediti formativi) con annessa prova finale;

– un concorso pubblico nazionale con cadenza annuale;

– un periodo di prova in servizio di un anno con valutazione conclusiva.

Un sistema che andrà certamente a burocratizzare ancora di più il reclutamento e la formazione dei docenti. La formazione in servizio, in particolare, sarà svolta al di là dell’orario lavorativo e potrà essere retribuita dalle scuole se comporterà un ampliamento dell’offerta. I percorsi svolti saranno anche valutati con la possibilità di accedere, in caso di esito positivo, a un incentivo salariale forfettario. L’accesso a tali percorsi di formazione avverrà su base volontaria, mentre sarà obbligatorio per i docenti immessi in ruolo in seguito all’adeguamento del contratto ai sensi del comma 9 e in ogni caso non prima dell’anno scolastico 2023/2024. Non un aumento degli stipendi, ma un contributo o, ancora peggio, delle ore di lavoro gratuito.

Inoltre, stando a quanto si apprende, l’indennità una tantum è corrisposta nel limite di spesa di cui al primo periodo, nell’anno di conseguimento della valutazione individuale positiva. Agli oneri derivanti dall’attuazione del presente comma si provvede mediante razionalizzazione dell’organico di diritto effettuata a partire dall’anno scolastico 2026/2027. Il taglio potrà dunque riguardare le immissioni in ruolo, i trasferimenti dei docenti di ruolo, le assegnazioni provvisorie e, anche, le supplenze al 31 agosto (9.600 posti in meno). Dunque, nonostante ciò che il Ministro continua a sostenere, i tagli ci saranno eccome.

Insomma, come ogni anno, anche questo è destinato a finire con polemiche e scioperi, minacce allo svolgimento regolare degli scrutini e malcontento generale. A prescindere da chi siede a Viale Trastevere, il solco tra la scuola e chi dovrebbe tutelarla si fa sempre più profondo.

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