Scuola, al via il countdown di un anno da dimenticare

scuolaMancano appena poche ore alla conclusione di questo lungo anno scolastico. Un anno difficile, per certi versi ingestibile, per altri tristemente prevedibile.

Era appena luglio scorso quando ci interrogavamo sulla scuola che sarebbe stata. L’emergenza sanitaria aveva palesato – ma non ce n’era alcun bisogno – quanto le carenze del sistema d’istruzione italiano si fossero negli anni accumulate fino a rendere gli istituti inospitali e il personale insufficiente. Erano i giorni in cui ci si chiedeva se e quando insegnanti e alunni sarebbero rientrati in piena sicurezza come sbandierato da ogni pulpito.

A viale Trastevere sedeva ancora Lucia Azzolina, da Palazzo Chigi Giuseppe Conte si rivolgeva alla nazione rassicurandola sulla possibilità di un’estate all’insegna di una certa normalità. Il mantra, in vista di settembre, era uno e uno soltanto: non ci saranno criticità. E mentre presidi e associazioni di categoria già avvisavano del contrario, nessuno sembrava disposto a prestare loro attenzione.

La discussione istituzionale, infatti, si era arenata su un tema che tante controversie e ilarità ha generato: i banchi con le rotelle. Su richiesta del Ministro dell’Istruzione, l’allora Commissario straordinario per l’emergenza COVID Domenico Arcuri aveva indetto una gara pubblica europea per l’acquisto di un massimo di 3 milioni di banchi per garantire la riapertura dell’anno scolastico in sicurezza: in particolare, fino a 1.5 milioni di banchi monoposto tradizionali e fino a 1.5 milioni di sedute attrezzate di tipo innovativo. Del nuovo arredo aveva parlato anche il Ministro nelle settimane precedenti, arrivando a collaudarlo in diretta tv ospite di un noto programma su La7.

Le postazioni avrebbero dovuto garantire le cosiddette rime buccali (le distanze minime da bocca a bocca) e il risparmio di spazio, sebbene – i più attenti facevano notare – non fossero sicure in caso di terremoto o incendio e nemmeno amiche del pianeta perché in plastica. I detrattori parlavano, quindi, di un grosso spreco di denaro che poco o nulla avrebbe cambiato. E, in effetti, così è stato: l’ennesimo tappeto per nascondere la polvere è costato centinaia di milioni di euro che lo Stato avrebbe potuto – e dovuto – investire in assunzione del personale, riduzione del numero di studenti per classe (evitando le cosiddette classi pollaio confermate, invece, anche per il prossimo anno), e interventi di edilizia scolastica, soprattutto nelle aree che da tempo lamentano strutture fatiscenti prive dei requisiti minimi. In tantissimi istituti, inoltre, quegli arredi non sono mai arrivati. Ad arrivare, in cambio, sono state le mascherine sulla cui fattura persistono tutt’oggi non pochi dubbi. Ma questa è un’altra storia tipicamente italiana.

Intanto, a lungo e come facilmente prevedibile, la disputa sui banchi della scorsa estate ha fatto perdere di vista quello che avrebbe dovuto essere il vero e unico imperativo: tornare in aula, presto e in modo sicuro. Perché, sebbene Azzolina si ostinasse a ripetere che saremmo stati pronti a settembre e che oltre a migliorare gli spazi, il Ministero è al lavoro per far sì che le lezioni possano essere ospitate altrove, oggi sappiamo che quegli obiettivi non sono stati centrati. Anzi. La dad che tutti scongiuravano – e che lo stesso Ministro definiva complementare soltanto per gli over 14 – ha sostituito la presenza in aula in uno squilibrato bilanciamento tra attività sincrone e asincrone.

Tanti hanno faticato a seguire le lezioni online, molti non hanno mai colmato le proprie lacune o, peggio, ne hanno acuite delle altre: già a maggio 2020, Save the Children denunciava il fondersi della povertà economica alla povertà educativa, ossia l’impossibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni. In appena pochi mesi, 1 bambino su 5 riscontrava problemi nel fare i compiti, mentre quasi 1 su 10, tra gli 8 e gli 11 anni, non seguiva le lezioni da remoto o lo faceva meno di una volta a settimana. E non è un caso, forse, che per il prossimo anno – in particolare in Campania (17897 alunni in meno) e Sicilia (quasi 14mila studenti in meno) ma, in realtà, ovunque nello Stivale – si registri un netto calo delle iscrizioni e, quindi, del numero di classi che si andranno a formare. Non una bella novità nel Paese in cui la dispersione scolastica è una piaga atavica e il Ministro Bianchi parla di dad come di prassi da consolidare nella scuola del futuro.

Se si esclude, poi, ciò che la didattica a distanza ha significato anche in termini di socialità, tanto per i più piccini quanto per i più grandi, non si può ignorare quanto abbia pesato sul corpo insegnante. Uno studio presentato a ottobre dalla CGIL in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, la Sapienza di Roma e l’Università di Teramo racconta che per circa 2 docenti su 3 (64.7%) la mole di lavoro è aumentata in modo rilevante, con un carico maggiorato per le donne (+67%). Nel 62.5% dei casi sono state attivate delle iniziative di formazione nell’acquisizione delle competenze necessarie – ma il 44.5% degli insegnanti di scuola primaria non ne ha ricevuta alcuna – e, in quanto alle piattaforme, soltanto il 21.1% degli intervistati le ha definite del tutto adeguate. Il problema più grosso, invece, riguarda un altro aspetto: 8 insegnanti su 10 (83.3%) hanno usato/usano un proprio dispositivo e meno di 1 professore su 3 è riuscito a raggiungere l’intera classe con le lezioni da casa. La media si alza per i docenti dei licei, ma non per i colleghi degli istituti tecnici e per le scuole dell’infanzia.

Nelle poche settimane di presenza in aula non è andata meglio nemmeno dal punto di vista sanitario: bypassato il monitoraggio, fallito ogni qualsivoglia tentativo di screening, ignorata la richiesta di un necessario potenziamento dei trasporti, insegnanti e alunni sono stati lasciati alla mercé del caso e spesso – troppo – alla paura dell’incertezza tra tamponi negati, quarantene a singhiozzo, regole confuse e una campagna vaccinale annunciata come prioritaria e, invece, ancora in divenire. Anche qui, i dati parlano chiaro: alle 16 del 28 maggio, risultava vaccinato, con entrambe le dosi, il 38% del personale scolastico. Leader in termini di immunizzazioni è la Puglia (75%); fanalini di coda, invece, la Sardegna (3%) e la Calabria (9%). In totale, a dover ricevere ancora la prima dose è il 19% dei lavoratori della scuola: in Sardegna, Sicilia, Calabria e Liguria più del 35%. E se la fine delle lezioni è prevista tra il 5 e il 16 giugno, capirete che non serve aggiungere altro.

Insomma, un anno volge al termine, l’ennesimo di un sistema che non funziona. Non funzionava prima, che pandemia era solo una voce sul vocabolario, non funziona oggi, che dovremmo uscirne migliori. Non funzionava con Lucia Azzolina e, probabilmente – ma qui confidiamo in una smentita –, non funzionerà con Patrizio Bianchi e i suoi successori. Non funzionerà finché la scuola sarà percepita come parcheggio anziché come comunità formativa; finché non smetteranno i tagli e i finanziamenti ai privati; finché gli insegnanti saranno visti come fannulloni anziché educatori. Finché l’Italia non capirà che senza scuola non c’è democrazia. Presente e futura.

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