Scuola e Azzolina: un Ministero tutto da rifare

scuolaSi fa un gran parlare, negli ultimi mesi, della scuola che sarà. L’emergenza sanitaria ha infatti palesato – come se ce ne fosse ancora bisogno – le carenze del sistema scolastico italiano, in particolare nelle strutture che dovranno ospitare ragazzi e insegnanti già dal prossimo settembre. Come non è ancora dato saperlo.

È nelle ultime settimane, però, che il dibattito si è acceso con maggiore veemenza quando, tra bozze, decreti e indiscrezioni, i concorsi hanno sottolineato ciò che appare ormai evidente da tempo: la scuola non è una priorità del nostro Paese. E non lo è da quando, a prescindere dal partito in nome del quale agiscono, a occupare la poltrona del Ministero dell’Istruzione sono personalità lontane dal mondo che intendono amministrare. Così, per non andare troppo indietro negli anni, dalla Riforma Gelmini alla Buona Scuola di Renzi, le manovre hanno significato tagli sempre più drastici e finanziamenti ai privati, nonché scelte discusse e discutibili nei fatti volte a danneggiare il percorso scolastico degli studenti e le condizioni di lavoro degli insegnanti che da tempo lamentano la scarsa attenzione di una politica sorda alle loro istanze. A tal proposito, non fa eccezione – ma, in fondo, non sorprende – l’operato finora inconcludente di Lucia Azzolina. Una che di mestiere, invece, faceva proprio l’insegnante.

Dal corpo docenti ai sindacati, senza dimenticare le famiglie protagoniste in questi mesi di lockdown e di didattica a distanza, sin da subito la titolare del MIUR ha scatenato reazioni e malcontenti in merito alla sua azione di governo, giudicata come insufficiente e poco reattiva agli stimoli di chi delle sue scelte rischia di subire le conseguenze. In particolare, le critiche, ormai sempre più pressanti, vertono intorno a tre tematiche fondamentali: il ritorno in aula a settembre, il reclutamento dei nuovi insegnanti e i rapporti con le organizzazioni sindacali.

Nonostante i trascorsi da sindacalista, infatti, il Ministro sembra a oggi incapace di dialogare in modo fattivo con i rappresentanti dei lavoratori, ai quali anche in una recentissima intervista non ha nascosto il proprio disappunto – mi sarei aspettata meno lettere di diffida e più collaborazione. Una difficoltà di confronto tale di cui persino gli alleati di maggioranza – per pura strategia politica, si intende – hanno finito con il sottolinearne la gravità. Insomma, gaffe sugli ‘mbuti a parte (giustificata come una citazione colta), oggi a difendere Azzolina sembra appena il MoVimento 5 Stelle. Mentre i precari, soprattutto loro, non perdonano i nuovi parametri di assegnazione di supplenze e concorsi ordinari e straordinari che rischiano di stravolgere il sistema già dal prossimo anno scolastico.

Al centro del dibattito vi è principalmente quello che viene definito un vero e proprio declassamento dei titoli richiesti. Ne è un esempio – forse su tutti – la svalutazione dei master universitari il cui punteggio, nelle nuove tabelle previste per le supplenze, sarà di 1 anziché di 3 come in precedenza. Un punteggio che ha fatto storcere il naso a quanti hanno investito il proprio tempo – e il proprio denaro – per una formazione che adesso non farà più la differenza né in termini di competenze acquisite né di graduatoria in senso stretto, nonostante quel tempo – e quel denaro – non sarà restituito loro né contribuirà a una miglioria del sistema scuola che, invece, necessiterebbe di minore burocrazia ma di maggiore efficienza.

Uguale valutazione sarà poi attribuita alle certificazioni di tipo informatico, anch’esse vittime di una modifica che certamente non gioverà. Queste ultime, infatti, sono state parificate tra loro in modo generico e senza alcuna particolare richiesta. Stando alle vecchie griglie, al fine di un upgrade in graduatoria, ogni titolo andava dettagliatamente descritto, in termini di durata, di argomento, di ente di rilascio e di valore singolo. Oggi, invece, un indefinito 0.5 determinerà un inaffidabile certificato frutto di un mancato e pericoloso controllo su chi e cosa, contribuendo al possibile sviluppo di un mercato parallelo di assegnazione dei titoli. La tanto decantata semplificazione – nei fatti smentita, andando ad analizzare le modalità e le lungaggini di presentazione delle domande (di cui ancora si ignorano le date) – rischia quindi di rivelarsi approssimazione, di certo l’ultima delle esigenze di una scuola già ampiamente svilita.

Non suona così diverso, poi, l’obbligo del livello b2 di conoscenza di lingua inglese previsto nei nuovi concorsi ordinaristraordinari che potrebbe compromettere quegli aspiranti abili al lavoro e che, tuttavia, avendo fatto altri studi o perfezionato idiomi diversi nel corso della propria carriera scolastica, si trovano oggi impossibilitati alla partecipazione al bando o costretti a inseguire un attestato praticamente irraggiungibile considerando tempi e costi da gestire in un periodo davvero breve. Anche in questa scelta, come abbiamo già sottolineato, il Ministero guidato da Azzolina è parso non avere chiara la realtà che amministra, le sue necessità e quelle di chi aspira all’insegnamento.

Perché se è vero che l’inglese è la lingua in cui si esprime il mondo, è pur vero che per puntare a un’istituzione dal respiro più internazionale – lì dove per internazionale si intende uno sviluppo delle infrastrutture, delle competenze degli insegnanti talvolta ancorati a un’idea di docenza troppo antica e a una scuola che sia polo attrattivo e non parcheggio – non basta un accento britannico, piuttosto investire e premiare secondo criteri di meritocrazia e di concreta opportunità formativa da offrire agli studenti. Quelli di cui spesso, fin troppo, non si parla quando si affronta il discorso e che anche in questo lungo periodo di pandemia hanno subito le conseguenze maggiori di una politica incapace di prendersene cura. Una politica che ha negato – e rischia di negare ancora – il fondamentale diritto allo studio.

«I mesi di lockdown sono stati duri ma ci hanno permesso di gettare le basi per fare quello che da troppo tempo l’Italia si era dimenticata di fare: innovare la scuola, digitalizzare l’istruzione, trasformare il processo di formazione degli insegnanti non in un costo per il settore ma in un investimento per il Paese. E  con le cifre che abbiamo stanziato […] possiamo dire che  i gap tecnologici presenti fino a qualche mese fa nelle scuole  italiane verranno di fatto colmati», ha dichiarato Azzolina. A non pensarla così, però, sono tutte le principali parti in causa, dai ragazzi ai docenti, lasciati alla mercé del proprio spirito di abnegazione.

I percorsi scolastici – bisogna tenerlo ben presente – sono innanzitutto percorsi di vita e sebbene qualche celebre ex Ministro ritenga che con la cultura non si mangi, non dobbiamo mai dimenticare che è con la cultura e soltanto con essa che si cresce come singoli cittadini e, poi, come comunità. Attuare una rivoluzione senza competenza e confronto non può che generare l’ennesimo corto circuito, l’ennesima presa di distanza tra istituzioni e docenti, quindi tra docenti e famiglie. E un Paese in cui precariato e abbandono scolastico si acuiscono anno dopo anno non può certamente permetterselo.

«Penso che in questi mesi gli insegnanti siano stati un esempio di  come il pubblico impiego possa contribuire a rendere il nostro Paese  all’altezza delle sfide di questa fase storica. Smart working non significa stare sul divano ma significa avere a cuore il proprio  mestiere e significa avere contezza di una questione cruciale: se  l’Italia vuole accettare la sfida dell’accelerazione del futuro, ciascuno deve fare la sua parte». Appunto.

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